SULLA NOZIONE DI STABILIMENTO IN MATERIA DI LICENZIAMENTI COLLETTIVI

E’ di indubbia rilevanza anche per l’ordinamento italiano, la sentenza sul tema dei requisiti geografici-quantitativi in tema di licenziamenti collettivi della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (causa C-80/14 Union of Shop, Distributive and Allied Workers (USDAW) & B. Wilson / WW Realisation 1 Ltd (in liquidazione), Ethel Austin Ltd, & Secretary of State for Business, Innovation and Skills).
Nello specifico, le società WW Realisation ed Ethel Austin erano imprese di vendita al dettaglio, operanti con i marchi Woolworths ed Ethel Austin.
Divenute insolventi, sono state sottoposte ad amministrazione controllata, con conseguente licenziamento per esubero di migliaia di dipendenti in tutto il Regno Unito.
La sig.ra Wilson, una delle dipendenti licenziate, nonché l’USDAW, organizzazione sindacale che conta oltre 430 000 membri nel Regno Unito, hanno agito contro queste due società, chiedendo la condanna dei datori di lavoro al versamento di indennità di tutela ai dipendenti licenziati, non essendo stata seguita la procedura di consultazione preventiva all’adozione dei piani sociali prevista dal diritto britannico.
Nel corso del processo di primo grado, a un certo numero di dipendenti licenziati è stata concessa l’indennità di tutela.
Per contro, circa 4500 ex dipendenti non hanno invece ottenuto tale beneficio con la motivazione che avevano lavorato in stabilimenti con meno di 20 dipendenti e che ogni stabilimento doveva essere considerato a se stante.
In appello, però, la Court of Appeal ha chiesto alla Corte di giustizia se l’espressione almeno pari a 20 contenuta nell’art. 1, paragrafo 1, primo comma, lettera a), ii), della direttiva 98/59 del Consiglio, del 20 luglio 1998, concernente il ravvicinamento delle legislazioni degli Stati membri in materia di licenziamenti collettivi, si riferisca al numero di licenziamenti effettuati nell’insieme degli stabilimenti del datore di lavoro in cui hanno luogo i licenziamenti nel corso di un periodo di 90 giorni, o se invece si riferisca unicamente al numero di licenziamenti effettuati in ciascun singolo stabilimento. La Corte interrogata, sul punto specifico, prima di giungere alla conclusione della questione giuridica, però, svolge due considerazioni.
Con la prima, dichiara anzitutto che la nozione di stabilimento, che non è precisata dalla direttiva stessa, costituisce una nozione di diritto dell’Unione e non può definirsi mediante richiamo alle normative degli Stati membri e quindi qualora un’impresa ricomprenda più entità, è l’entità cui i lavoratori colpiti da licenziamento sono addetti per lo svolgimento delle loro mansioni a costituire lo stabilimento.
Con la seconda, la Corte osserva che, l’interpretazione secondo la quale si dovrebbe prendere in considerazione il numero totale dei licenziamenti effettuati in tutti gli stabilimenti di un’impresa, se da un lato aumenterebbe il numero di lavoratori che potrebbero beneficiare della tutela della direttiva, dall’altro una tale interpretazione sarebbe però contraria agli altri obiettivi della direttiva, vale a dire quello di assicurare una tutela dei diritti dei lavoratori analoga nei vari Stati membri e a quello di ravvicinare gli oneri che dette norme di tutela comportano per le imprese dell’Unione.
Fatte queste due considerazioni, la Corte dichiara, pertanto, che l’interpretazione dell’espressione almeno pari a 20, richiede che siano presi in considerazione i licenziamenti effettuati in ciascuno stabilimento considerato separatamente.
A questo punto, sembrano esserci tutte le condizioni perché il quadro giuridico in tema di licenziamenti collettivi, muti anche in Italia, visto che secondo il dettato normativo, per licenziamento collettivo viene inteso quello relativo a imprese con più di 15 dipendenti che intendono effettuare almeno cinque licenziamenti – requisito numerico – nell’arco di centoventi giorni, in ciascuna unità produttiva o in più unità produttive nell’ambito del territorio di una stessa provincia (art.24 co.1 L.223/91).
E’ di questo nuovo indirizzo, che anche la Giurisprudenza Italiana dovrà tenere conto, non potendo più considerare come già fatto in passato che la riduzione di personale deve, in linea generale, investire l’intero complesso aziendale, potendo essere limitata a specifici rami aziendali soltanto se essi siano caratterizzati da autonomia e specificità della professionalità utilizzate, infungibili rispetto ad altre.
(Cass. 14/6/2007 n. 13876, Pres. Senese Est. Picone, in Riv. it. dir. lav. 2008. O ancora come fatto sempre dalla Cassazione del 31/10/2013 n. 24575, Pres. Maisano Rel. Garri, in Lav. nella giur. 2014, 182, stabilendo che nell’ambito di una procedura di licenziamento collettivo, l’individuazione dei lavoratori da estromettere deve di norma essere compiuta con riguardo all’intero complesso dell’impresa.
Infine, non può non essere ricordato, come la Commissione europea abbia già deferito l’Italia alla Corte di giustizia dell’UE, per non aver adottato misure adeguate al fine di attuare la legislazione UE in tema di licenziamenti collettivi con particolare riferimento al fatto che la legislazione italiana, come applicata dai tribunali, esclude attualmente i dirigenti dall’ambito di applicazione della procedura di mobilità, privando questa categoria di lavoratori della protezione garantita da tale procedura.
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