LICENZIAMENTI COLLETTIVI E COMUNICAZIONE DI AVVIO DELLA PROCEDURA

Con la sentenza n. 17234 del 22 agosto 2016, la Corte di Cassazione ha ritenuto illegittimo il licenziamento collettivo di un’impresa che, in assenza della RSU e della RSA, aveva inviato la comunicazione di avvio dell’iter procedurale soltanto agli organismi operanti in ambito comunale, escludendo altre organizzazioni che avevano la propria rappresentanza a livello provinciale e nazionale.
La Suprema Corte ha ritenuto arbitraria tale limitazione “poiché un così circoscritto ambito territoriale non teneva conto della rilevanza quantomeno provinciale delle problematiche afferenti una procedura di mobilità e del sicuro criterio di rappresentatività costituito dalla sottoscrizione di accordi collettivi applicati in azienda, laddove la norma faceva riferimento ad una dimensione nazionale”.
Più nello specifico, secondo la Corte territoriale, in particolare, per il licenziamento, intimato alla lavoratrice a seguito di procedura di mobilità ex Legge n. 223 del 1991, la comunicazione di avvio era stata indebitamente limitata alle sole associazioni di categoria presenti sul territorio di Civita Castellana.
In realtà, l’obbligo di effettuare la comunicazione alle associazione di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative era previsto, nel caso di mancanza delle rappresentanze sindacali aziendali, nei riguardi delle associazioni sindacali firmatarie di contratti collettivi applicati nell’unità produttiva e, a seguito della sentenza della Corte costituzionale numero 231 del 2013, anche nei confronti delle associazioni sindacali che, pur non firmatarie dei contratti collettivi applicati nell’unità produttiva, avessero comunque partecipato alla negoziazione relativa agli stessi contratti quali rappresentanti dei lavoratori in azienda. Nel caso concreto, dunque, secondo la Corte distrettuale, la limitazione, in assenza di RSU o di RSA, della comunicazione alle sole associazioni sindacali presenti sul territorio comunale risultava arbitraria, poiché un così circoscritto ambito territoriale non teneva conto della rilevanza, quantomeno provinciale, delle problematiche afferenti ad una procedura di mobilità (nella quale non a caso l’autorità pubblica era coinvolta a livello regionale) e del sicuro criterio di rappresentatività, costituito dalla sottoscrizione di accordi collettivi applicati in azienda, laddove la norma faceva riferimento ad una dimensione nazionale.
Nel prosieguo della vicenda, proponeva ricorso per cassazione la Società ricorrente con due motivi: 1) per violazione e falsa applicazione degli articoli 4 e 5 L. n. 223 del 1991, nonché dell’articolo 19 della legge numero 300 del 1970;
2) violazione e falsa applicazione, sotto altro profilo, dei suddetti articoli 4 e 19 (avendo la sentenza della Corte distrettuale errato nell’attribuire alle associazioni UIL ceramica e SALC-Cisal – organizzazioni provinciali e firmatarie esclusivamente di un accordo integrativo provinciale- le caratteristiche di un’associazione di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale).
Nel merito, per la Cassazione, le anzidette censure, che le per loro connessione hanno potuto essere esaminate congiuntamente, non sono state ritenute meritevoli di pregio, non sussistendo le ipotizzate violazioni o false applicazioni di legge, atteso che per la Corte l’impugnata decisione appare perfettamente aderente al testo delle disposizioni legislative, che regolano la materia in questione dei licenziamenti collettivi.
Infatti la Corte nella sentenza ricorda come: l’art. 4 più volte citato (v. il testo in vigore dal 27.06.1997 al 27.10.2008 – procedura per la dichiarazione di mobilità) così recita: “L’impresa che sia stata ammessa al trattamento straordinario di integrazione salariale, qualora nel corso di attuazione del programma di cui all’articolo l ritenga di non essere in grado di garantire il reimpiego a tutti i lavoratori sospesi e di non poter ricorrere a misure alternative, ha facoltà di avviare le procedure di mobilità ai sensi del presente articolo 2. Le Imprese che intendano esercitare la facoltà di cui al comma l sono tenute a darne comunicazione preventiva per iscritto alle rappresentanze sindacali aziendali costituite a norma dell’articolo 19 della legge 20 maggio 1970, n. 300, nonché alle rispettive associazioni di categoria. In mancanza delle Predette rappresentanze la comunicazione deve essere effettuata alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale.
Inoltre, secondo la Corte, nel caso concreto, la limitazione, in assenza di RSA o RSU, della comunicazione alle sole organizzazioni sindacali per così dire comunali risultava arbitraria, poiché un così circoscritto ambito territoriale non teneva conto della rilevanza quantomeno provinciale delle problematiche afferenti una procedura di mobilità e del sicuro criterio di rappresentatività costituito dalla sottoscrizione di accordi collettivi applicati in azienda, laddove la norma faceva riferimento ad una dimensione nazionale.
Pertanto, alla violazione dell’obbligo di comunicazione dell’avvio della procedura di mobilità alle associazioni di categoria aderenti alle confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale, per illegittima esclusione di alcune di esse mediante un criterio d’individuazione arbitrario o comunque eccessivamente limitativo, conseguiva l’inefficacia del licenziamento intimato alla lavoratrice.
Sul punto, inoltre la Corte nel ribadire l’insufficienza delle comunicazioni fatte dall’azienda, articola il ragionamento ricordando come, a seguito dell’esito referendario del 1995, ed in conseguenza diretta della “parziale abrogazione” dell’art. 19 della L. 300/70, il testo vigente del suddetto articolo risulta essere il seguente :
“Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva nell’ambito delle associazioni sindacali, che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva.
Pertanto, sulla base della nuova normativa, le Associazioni o gli organismi sindacali che risultino firmatari di un contratto (o accordo) collettivo applicato nell’unità produttiva (e, quindi, anche a livello aziendale) possono – dietro iniziativa propositiva dei lavoratori – dar luogo alla costituzione di rappresentanze sindacali ed usufruire, conseguentemente, della legislazione di sostegno strutturata dal
Tit. III della L. n. 300/1970.
Il risultato del referendum è quello di aver abrogato l’indice presuntivo di rappresentatività previsto dalla lett. a) dell’art. 19 (conseguente alla “adesione alle Confederazioni maggiormente rappresentative sul piano nazionale”) e di aver circoscritto alla dimensione aziendale (anziché nazionale o provinciale) la soglia minima per il riscontro della rappresentatività effettiva contemplata dalla lettera b) dello stesso articolo.
Nel caso specifico però, la limitazione, in assenza di RSA o RSU, della comunicazione alle sole organizzazioni sindacali per così dire comunali risultava arbitraria, in quanto un così circoscritto ambito territoriale non teneva conto della rilevanza quantomeno provinciale delle problematiche afferenti una procedura di mobilità e del sicuro criterio di rappresentatività costituito dalla sottoscrizione di accordi collettivi applicati in azienda, laddove la norma faceva riferimento ad una dimensione nazionale.
Nel completare il ragionamento sopra citato, la Corte stessa ha ribadito come ogni altra opzione ermeneutica di tipo restrittivo, d’altro canto, risulterebbe in contrasto anche con i principi di effettività della tutela sindacale, ossia di rappresentatività sostanziale del sindacato, nei sensi altresì indicati dalla succitata sentenza n. 231/2013 della Corte Costituzionale, sicché non può limitarsi l’ambito dei destinatari di comunicazione così rilevante ex art. 4 L 223/ 91, se non in presenza di sicuri ed univoci elementi che ne individuino con certezza i legittimati a riceverla.
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