IN ITALIA È POSSIBILE LICENZIARE AL COMPIMENTO DEL 25° ANNO DI ETÀ
(Commento Sentenza CGUE C – 143/16 – Abercrombie; contratto intermittente)
E’ quanto recentemente affermato dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, chiamata a pronunciarsi sulla compatibilità di alcuni aspetti peculiari del contratto di lavoro intermittente, con le rigide prescrizioni europee in tema di divieto di discriminazione.
La vicenda, infatti, trae origine dal caso di un lavoratore assunto con tale tipologia di contratto e poi licenziato al compimento del 25° anno di età.
Il contratto di lavoro intermittente, anche noto come lavoro a chiamata o «job on call», consente ai datori di lavoro che svolgono attività – o fasi di esse – in modo discontinuo, di servirsi delle prestazioni dei lavoratori secondo le proprie necessità.
I lavoratori, in sostanza, alternano periodi di lavoro effettivo ad altri di inattività, c.d. «di attesa».
Si tratta di una forma di impiego percorribile in caso di particolari circostanze o attività individuate dalla legge o dai contratti collettivi, oppure – indipendentemente dall’attività svolta – riservata a soggetti che abbiano più di 55 anni (45 secondo la formulazione della norma vigente al tempo dei fatti di causa) o meno di 24.
Questi ultimi tuttavia, dovranno svolgere le prestazioni lavorative a chiamata entro il compimento del 25° anno di età.
Investita della questione, la Corte di Giustizia si è dunque trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un contratto che, nei fatti, prevede diversi regimi per l’accesso al lavoro e per il licenziamento dei lavoratori intermittenti.
Dopo aver richiamato i principi cardine dell’Unione Europea in tema di parità di trattamento quanto ad occupazione e condizioni di lavoro che tutelano i lavoratori da ogni tipo di discriminazione – fra cui quelle basate sull’età – la Corte ricorda che sussistono ipotesi in cui tali discriminazioni possono essere tollerate e pertanto un trattamento differente fra due persone in situazioni analoghe può essere considerato lecito. Si tratta ad esempio, dell’ipotesi in cui un diverso trattamento risponda ad una finalità superiore e legittima in tema di politica del lavoro e di gestione del mercato del lavoro.
Nel giudizio ha preso parte anche un rappresentante del Governo Italiano, che a questo proposito ha affermato come il contratto di lavoro intermittente si inserisca in un contesto normativo finalizzato a valorizzare la flessibilità del mercato del lavoro, nella veste di strumento volto ad incrementare l’occupazione, il quale, inoltre, costituisce una forma di sostegno ai giovani privi di esperienza professionale, per questo penalizzati all’interno di un mercato del lavoro in difficoltà come il nostro.
Secondo il rappresentante del Governo, se è pur vero che il contratto a chiamata consente ai giovani lavoratori un ingresso nel mercato del lavoro solo limitato nel tempo, bisogna considerare che questo istituto non è pensato per garantire loro l’accesso stabile, bensì per favorirne una prima esperienza lavorativa tesa ad acquisire esperienza e competenze, configurando, quindi, un trampolino verso nuove possibilità di impiego.
Si tratterebbe, cioè di uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro. Per queste ragioni, sarebbe auspicabile che il maggior numero possibile di giovani facesse ricorso a tale forma di contratto, visto e considerato che durante i periodi di svolgimento dell’attività lavorativa, vengono comunque riconosciute identiche tutele rispetto ai lavoratori stabili.
Inoltre, senza simili strumenti di flessibilità, le imprese non potrebbero offrire lavoro a tutti i giovani, cosicché gran parte di questi resterebbero esclusi, favorendo, tra l’altro, il ricorso a forme di lavoro irregolari.
Per queste ragioni la possibilità di stipulare contratti a chiamata con soggetti che hanno meno di 24 anni e di licenziarli al compimento del 25°, risulta comunque utile al fine di approcciarsi al mondo del lavoro.
Per altro verso, sul presupposto per cui i giovani alla ricerca del primo impiego sono fra le categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale, la Corte di Giustizia ritiene di condividere le osservazioni del rappresentante italiano, affermando (per la verità ribadendo anche principi affermati in pronunce precedenti) che il sostegno al collocamento giovanile nel mercato del lavoro possa legittimare una disparità di trattamento quanto alle condizioni speciali di accesso al lavoro o condizioni di licenziamento, atteso che una misura che autorizzi i datori di lavoro a concludere contratti meno rigidi, sarà senza dubbio funzionale ad ottenere una certa flessibilità sul mercato.
A quanto sopra fa poi eco la difesa della Società a detta della quale se in un contesto come quello attuale, un lavoratore con meno di 25 anni grazie ad un contratto temporaneo riesce ad accedere al mercato del lavoro, questi si troverà sicuramente in una situazione migliore rispetto a chi invece non può usufruire di tale possibilità, rimanendo pertanto privo di impiego.
A parere di chi scrive le suesposte argomentazioni meritano di essere condivise.
Non v’è dubbio che nell’attuale contesto economico – sociale ogni misura in grado di offrire ai datori di lavoro strumenti meno vincolanti e meno onerosi, costituisca un incentivo ad assorbire maggiormente la domanda di impiego proveniente da giovani lavoratori.
Inoltre, per quanto l’ingresso nel mondo del lavoro richieda sicuramente un, seppur minimo, percorso di formazione, è però vero che questa non deve necessariamente essere erogata in modo stabile e continuativo per rivelarsi proficua, essendo altrettanto efficace anche la formazione ricevuta in funzione della sola prestazione effettivamente svolta.
Infatti, considerato che sempre più di frequente uno stesso lavoratore è chiamato a svolgere attività nei settori produttivi più vari, in questo modo solo diventa possibile fornire strumenti validi e per di più diversificati, ma anche stimolare un ricambio della forza lavoro che, peraltro, consente agli stessi lavoratori di maturare competenze poliedriche.
A parere di chi scrive, inseguendo la stabilità del lavoro non necessariamente si raggiunge la stabilità del mercato, mentre eliminando la rigidità in uscita a favore di una maggiore flessibilità in entrata, senza dubbio si mettono i lavoratori in condizione di maturare esperienze che sono solo formative, ma soprattutto diversificate e che quindi consentono di acquisire professionalità spendibili presso i datori di lavoro più diversi, con evidenti benefici sia per gli uni che per gli altri.
La vicenda, infatti, trae origine dal caso di un lavoratore assunto con tale tipologia di contratto e poi licenziato al compimento del 25° anno di età.
Il contratto di lavoro intermittente, anche noto come lavoro a chiamata o «job on call», consente ai datori di lavoro che svolgono attività – o fasi di esse – in modo discontinuo, di servirsi delle prestazioni dei lavoratori secondo le proprie necessità.
I lavoratori, in sostanza, alternano periodi di lavoro effettivo ad altri di inattività, c.d. «di attesa».
Si tratta di una forma di impiego percorribile in caso di particolari circostanze o attività individuate dalla legge o dai contratti collettivi, oppure – indipendentemente dall’attività svolta – riservata a soggetti che abbiano più di 55 anni (45 secondo la formulazione della norma vigente al tempo dei fatti di causa) o meno di 24.
Questi ultimi tuttavia, dovranno svolgere le prestazioni lavorative a chiamata entro il compimento del 25° anno di età.
Investita della questione, la Corte di Giustizia si è dunque trovata a pronunciarsi sulla legittimità di un contratto che, nei fatti, prevede diversi regimi per l’accesso al lavoro e per il licenziamento dei lavoratori intermittenti.
Dopo aver richiamato i principi cardine dell’Unione Europea in tema di parità di trattamento quanto ad occupazione e condizioni di lavoro che tutelano i lavoratori da ogni tipo di discriminazione – fra cui quelle basate sull’età – la Corte ricorda che sussistono ipotesi in cui tali discriminazioni possono essere tollerate e pertanto un trattamento differente fra due persone in situazioni analoghe può essere considerato lecito. Si tratta ad esempio, dell’ipotesi in cui un diverso trattamento risponda ad una finalità superiore e legittima in tema di politica del lavoro e di gestione del mercato del lavoro.
Nel giudizio ha preso parte anche un rappresentante del Governo Italiano, che a questo proposito ha affermato come il contratto di lavoro intermittente si inserisca in un contesto normativo finalizzato a valorizzare la flessibilità del mercato del lavoro, nella veste di strumento volto ad incrementare l’occupazione, il quale, inoltre, costituisce una forma di sostegno ai giovani privi di esperienza professionale, per questo penalizzati all’interno di un mercato del lavoro in difficoltà come il nostro.
Secondo il rappresentante del Governo, se è pur vero che il contratto a chiamata consente ai giovani lavoratori un ingresso nel mercato del lavoro solo limitato nel tempo, bisogna considerare che questo istituto non è pensato per garantire loro l’accesso stabile, bensì per favorirne una prima esperienza lavorativa tesa ad acquisire esperienza e competenze, configurando, quindi, un trampolino verso nuove possibilità di impiego.
Si tratterebbe, cioè di uno stadio precedente al pieno accesso al mercato del lavoro. Per queste ragioni, sarebbe auspicabile che il maggior numero possibile di giovani facesse ricorso a tale forma di contratto, visto e considerato che durante i periodi di svolgimento dell’attività lavorativa, vengono comunque riconosciute identiche tutele rispetto ai lavoratori stabili.
Inoltre, senza simili strumenti di flessibilità, le imprese non potrebbero offrire lavoro a tutti i giovani, cosicché gran parte di questi resterebbero esclusi, favorendo, tra l’altro, il ricorso a forme di lavoro irregolari.
Per queste ragioni la possibilità di stipulare contratti a chiamata con soggetti che hanno meno di 24 anni e di licenziarli al compimento del 25°, risulta comunque utile al fine di approcciarsi al mondo del lavoro.
Per altro verso, sul presupposto per cui i giovani alla ricerca del primo impiego sono fra le categorie di popolazione più esposte al rischio di esclusione sociale, la Corte di Giustizia ritiene di condividere le osservazioni del rappresentante italiano, affermando (per la verità ribadendo anche principi affermati in pronunce precedenti) che il sostegno al collocamento giovanile nel mercato del lavoro possa legittimare una disparità di trattamento quanto alle condizioni speciali di accesso al lavoro o condizioni di licenziamento, atteso che una misura che autorizzi i datori di lavoro a concludere contratti meno rigidi, sarà senza dubbio funzionale ad ottenere una certa flessibilità sul mercato.
A quanto sopra fa poi eco la difesa della Società a detta della quale se in un contesto come quello attuale, un lavoratore con meno di 25 anni grazie ad un contratto temporaneo riesce ad accedere al mercato del lavoro, questi si troverà sicuramente in una situazione migliore rispetto a chi invece non può usufruire di tale possibilità, rimanendo pertanto privo di impiego.
A parere di chi scrive le suesposte argomentazioni meritano di essere condivise.
Non v’è dubbio che nell’attuale contesto economico – sociale ogni misura in grado di offrire ai datori di lavoro strumenti meno vincolanti e meno onerosi, costituisca un incentivo ad assorbire maggiormente la domanda di impiego proveniente da giovani lavoratori.
Inoltre, per quanto l’ingresso nel mondo del lavoro richieda sicuramente un, seppur minimo, percorso di formazione, è però vero che questa non deve necessariamente essere erogata in modo stabile e continuativo per rivelarsi proficua, essendo altrettanto efficace anche la formazione ricevuta in funzione della sola prestazione effettivamente svolta.
Infatti, considerato che sempre più di frequente uno stesso lavoratore è chiamato a svolgere attività nei settori produttivi più vari, in questo modo solo diventa possibile fornire strumenti validi e per di più diversificati, ma anche stimolare un ricambio della forza lavoro che, peraltro, consente agli stessi lavoratori di maturare competenze poliedriche.
A parere di chi scrive, inseguendo la stabilità del lavoro non necessariamente si raggiunge la stabilità del mercato, mentre eliminando la rigidità in uscita a favore di una maggiore flessibilità in entrata, senza dubbio si mettono i lavoratori in condizione di maturare esperienze che sono solo formative, ma soprattutto diversificate e che quindi consentono di acquisire professionalità spendibili presso i datori di lavoro più diversi, con evidenti benefici sia per gli uni che per gli altri.
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