SE PER IL JOBS ACT POTREBBE SUONARE LA CAMPANA DELL’INCOSTITUZIONALITA’
Il Tribunale del Lavoro di Roma ha rinviato al giudizio della Corte Costituzionale il contratto a tutele crescenti previsto attraverso il c.d. Jobs Act per violazione di alcuni fondamentali articoli della Costituzione.
Lo ha deciso il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Maria Giulia Cosentino, nel disporre un’ordinanza del 26 luglio 2017, relativa a una causa promossa da una lavoratrice licenziata dopo pochi mesi dall’assunzione avvenuta formalmente nel maggio del 2015.
L’ordinanza del Giudice è incentrata su tre ragioni.
Secondo il primo motivo, il D. Lgs. 23 del 2015 sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto l’importo dell’indennità risarcitoria disegnata dalle norme del c.d. Jobs Act non rivestirebbe carattere compensativo né dissuasivo ed avrebbe conseguenze discriminatorie.
Inoltre in quanto l’eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice finirebbe per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro;
In secondo luogo sarebbero violati gli articoli 4 e 35 della Costituzione, in quanto al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso;
Da ultimo, l’incostituzionalità della norma sarebbe ravvisabile per la violazione degli articoli 117 e 76 della Costituzione, in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo sembrerebbe secondo il Giudice inadeguata rispetto a quanto statuito da alcune fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, quando il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio di delega, che sarebbe stato pertanto palesemente violato.
Analizzando con più attenzione le tre ragioni poc’anzi citate emergono alcuni temi sui quali la Corte Costituzionale sarà chiamata a esercitare una laboriosa attività interpretativa.
In particolare, rispetto alla prima ragione a sostegno dell’ordinanza, secondo il Giudice, emergerebbe un regresso di tutele irragionevole e sproporzionato che violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto fra vecchi e nuovi assunti verrebbe a crearsi una disparità di trattamento.
Inoltre, è molto interessante e attuale la considerazione fatta dal Giudice nella stessa ordinanza, secondo cui, dal momento che l’indennità che il datore deve pagare all’esito del giudizio è fissa, predeterminata e prescinde dalla gravità dell’illegittimità, risulterebbe del tutto negato il riconoscimento dei possibili danni punitivi recentemente ammessi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 luglio 2017 con la sentenza n. 16601), la quale ha per l’appunto dichiarato la compatibilità, nella ricorrenza di determinati presupposti, dell’istituto di origine statunitense dei c.d. “risarcimenti punitivi”, essendo assegnato, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione ma anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.
Per quanto concerne la seconda motivazione posta alla base dell’ordinanza, l’art. 4 della Costituzione (“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”) e l’art. 35, comma 1 (“lo Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), non possono dirsi attuati e rispettati in una normativa come quella all’esame, che sostanzialmente valuta il diritto al lavoro, come strumento di realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico, con una quantificazione tanto modesta ed evanescente, in comparazione con la normativa ex legge 92/2012 ancora vigente, oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità.
Di fatto ripristinando una sorta di libertà assoluta di licenziamento (la cui contrarietà alla Costituzione è espressamente affermata nella sentenza n. 36/2000 della Corte costituzionale) che annulla l’effetto vincolistico derivante dall’esistenza di fattispecie inderogabili quali la giusta causa e il giustificato motivo.
Infine, con la terza ragione, il Giudice, rileva una violazione da parte della Legge italiana con:
L’art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato);
La Convenzione ILO n. 158/1982 sui licenziamenti, che prevede che, qualora il licenziamento sia ingiustificato, se il giudice o gli organismi competenti a giudicare l’atto di recesso “non hanno il potere di annullare il licenziamento e/o di ordinare o di proporre il reintegro del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata”;
L’art. 24 della Carta Sociale Europea, che stabilisce: “per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
Alla luce di quanto affermato dal Giudice del Tribunale di Roma, quest’ultima motivazione non appare di scarsa rilevanza, specie considerando come in base all’art. 117 della Costituzione, la Repubblica accetta, nell’esercizio della sua potestà legislativa sovrana, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali che assumono, quindi, carattere di norme interposte comunque idonee a rappresentare un parametro di costituzionalità del diritto interno (cfr. Corte Cost. n. 348 e 349 del 2007).
In altre parole, se non ci dovesse essere un Giudice a Roma forse ce ne potrebbe essere uno a Lussemburgo?
Una simile circostanza, tuttavia dovrebbe essere valutata con estrema attenzione sia dal Giudice Costituzionale Italiano che da quello Europeo.
Ciò, in particolare alla luce del fatto che la riforma del mercato del lavoro ha accolto le indicazioni di due importanti direttive europee (la 1999/70 sulla regolamentazione dei contratti a termine e la 2008/104 sulla liberalizzazione del lavoro somministrato tramite agenzia).
Concludendo, è necessario riflettere sugli effetti oltre che giuridici anche economici che potrebbe produrre una sentenza di incostituzionalità della riforma varata solo nel 2015.
In particolare, l’analisi sulla riforma dovrà inevitabilmente anche tener conto di alcuni dati economici secondo i quali l’Italia nel 2016, ha migliorato di undici posti la propria posizione nell’ultimo rapporto Doing Business della Banca Mondiale, collocandosi al 45° posto e sempre nel 2016, ha migliorato di 6 posizioni il proprio ranking nel Global Competitiveness Index 2015-2016 presentato nell’ultimo World Economic Forum, salendo dal 49° al 43° posto.
La dichiarazione di incostituzionalità, potrebbe incidere negativamente non solo rispetto ai miglioramenti poc’anzi citati ma anche sulle scelte delle società internazionali già operanti in Italia e su quelle potenzialmente interessate a operare in Italia.
In altre parole, il rischio reale è che a fronte di un simile livello di incertezza giuridica, molte imprese potrebbero essere indotte a non ritenere l’Italia il luogo più adatto per investimenti con inevitabili conseguenze sull’occupazione.
© riproduzione riservata dello Studio GF LEGAL STP
Lo ha deciso il Giudice del Lavoro, Dott.ssa Maria Giulia Cosentino, nel disporre un’ordinanza del 26 luglio 2017, relativa a una causa promossa da una lavoratrice licenziata dopo pochi mesi dall’assunzione avvenuta formalmente nel maggio del 2015.
L’ordinanza del Giudice è incentrata su tre ragioni.
Secondo il primo motivo, il D. Lgs. 23 del 2015 sarebbe in contrasto con l’art. 3 della Costituzione, in quanto l’importo dell’indennità risarcitoria disegnata dalle norme del c.d. Jobs Act non rivestirebbe carattere compensativo né dissuasivo ed avrebbe conseguenze discriminatorie.
Inoltre in quanto l’eliminazione totale della discrezionalità valutativa del giudice finirebbe per disciplinare in modo uniforme casi molto dissimili fra loro;
In secondo luogo sarebbero violati gli articoli 4 e 35 della Costituzione, in quanto al diritto al lavoro, valore fondante della Carta, viene attribuito un controvalore monetario irrisorio e fisso;
Da ultimo, l’incostituzionalità della norma sarebbe ravvisabile per la violazione degli articoli 117 e 76 della Costituzione, in quanto la sanzione per il licenziamento illegittimo sembrerebbe secondo il Giudice inadeguata rispetto a quanto statuito da alcune fonti sovranazionali come la Carta di Nizza e la Carta Sociale, quando il rispetto della regolamentazione comunitaria e delle convenzioni sovranazionali costituiva un preciso criterio di delega, che sarebbe stato pertanto palesemente violato.
Analizzando con più attenzione le tre ragioni poc’anzi citate emergono alcuni temi sui quali la Corte Costituzionale sarà chiamata a esercitare una laboriosa attività interpretativa.
In particolare, rispetto alla prima ragione a sostegno dell’ordinanza, secondo il Giudice, emergerebbe un regresso di tutele irragionevole e sproporzionato che violerebbe l’art. 3 della Costituzione, in quanto fra vecchi e nuovi assunti verrebbe a crearsi una disparità di trattamento.
Inoltre, è molto interessante e attuale la considerazione fatta dal Giudice nella stessa ordinanza, secondo cui, dal momento che l’indennità che il datore deve pagare all’esito del giudizio è fissa, predeterminata e prescinde dalla gravità dell’illegittimità, risulterebbe del tutto negato il riconoscimento dei possibili danni punitivi recentemente ammessi dalle Sezioni Unite della Corte di Cassazione il 5 luglio 2017 con la sentenza n. 16601), la quale ha per l’appunto dichiarato la compatibilità, nella ricorrenza di determinati presupposti, dell’istituto di origine statunitense dei c.d. “risarcimenti punitivi”, essendo assegnato, nel vigente ordinamento, alla responsabilità civile non solo il compito di restaurare la sfera patrimoniale del soggetto che ha subìto la lesione ma anche la funzione di deterrenza e quella sanzionatoria del responsabile civile.
Per quanto concerne la seconda motivazione posta alla base dell’ordinanza, l’art. 4 della Costituzione (“la Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro e promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”) e l’art. 35, comma 1 (“lo Repubblica tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni”), non possono dirsi attuati e rispettati in una normativa come quella all’esame, che sostanzialmente valuta il diritto al lavoro, come strumento di realizzazione della persona e mezzo di emancipazione sociale ed economico, con una quantificazione tanto modesta ed evanescente, in comparazione con la normativa ex legge 92/2012 ancora vigente, oltretutto fissa e crescente in base al parametro della mera anzianità.
Di fatto ripristinando una sorta di libertà assoluta di licenziamento (la cui contrarietà alla Costituzione è espressamente affermata nella sentenza n. 36/2000 della Corte costituzionale) che annulla l’effetto vincolistico derivante dall’esistenza di fattispecie inderogabili quali la giusta causa e il giustificato motivo.
Infine, con la terza ragione, il Giudice, rileva una violazione da parte della Legge italiana con:
L’art. 30 della Carta di Nizza (che impone agli Stati membri di garantire una adeguata tutela in caso di licenziamento ingiustificato);
La Convenzione ILO n. 158/1982 sui licenziamenti, che prevede che, qualora il licenziamento sia ingiustificato, se il giudice o gli organismi competenti a giudicare l’atto di recesso “non hanno il potere di annullare il licenziamento e/o di ordinare o di proporre il reintegro del lavoratore, o non ritengono che ciò sia possibile nella situazione data, dovranno essere abilitati ad ordinare il versamento di un indennizzo adeguato o ogni altra forma di riparazione considerata come appropriata”;
L’art. 24 della Carta Sociale Europea, che stabilisce: “per assicurare l’effettivo esercizio del diritto ad una tutela in caso di licenziamento, le Parti s’impegnano a riconoscere: a) il diritto dei lavoratori di non essere licenziati senza un valido motivo legato alle loro attitudini o alla loro condotta o basato sulle necessità di funzionamento dell’impresa, dello stabilimento o del servizio; b) il diritto dei lavoratori licenziati senza un valido motivo, ad un congruo indennizzo o altra adeguata riparazione”.
Alla luce di quanto affermato dal Giudice del Tribunale di Roma, quest’ultima motivazione non appare di scarsa rilevanza, specie considerando come in base all’art. 117 della Costituzione, la Repubblica accetta, nell’esercizio della sua potestà legislativa sovrana, i vincoli derivanti dall’ordinamento comunitario e dai trattati internazionali che assumono, quindi, carattere di norme interposte comunque idonee a rappresentare un parametro di costituzionalità del diritto interno (cfr. Corte Cost. n. 348 e 349 del 2007).
In altre parole, se non ci dovesse essere un Giudice a Roma forse ce ne potrebbe essere uno a Lussemburgo?
Una simile circostanza, tuttavia dovrebbe essere valutata con estrema attenzione sia dal Giudice Costituzionale Italiano che da quello Europeo.
Ciò, in particolare alla luce del fatto che la riforma del mercato del lavoro ha accolto le indicazioni di due importanti direttive europee (la 1999/70 sulla regolamentazione dei contratti a termine e la 2008/104 sulla liberalizzazione del lavoro somministrato tramite agenzia).
Concludendo, è necessario riflettere sugli effetti oltre che giuridici anche economici che potrebbe produrre una sentenza di incostituzionalità della riforma varata solo nel 2015.
In particolare, l’analisi sulla riforma dovrà inevitabilmente anche tener conto di alcuni dati economici secondo i quali l’Italia nel 2016, ha migliorato di undici posti la propria posizione nell’ultimo rapporto Doing Business della Banca Mondiale, collocandosi al 45° posto e sempre nel 2016, ha migliorato di 6 posizioni il proprio ranking nel Global Competitiveness Index 2015-2016 presentato nell’ultimo World Economic Forum, salendo dal 49° al 43° posto.
La dichiarazione di incostituzionalità, potrebbe incidere negativamente non solo rispetto ai miglioramenti poc’anzi citati ma anche sulle scelte delle società internazionali già operanti in Italia e su quelle potenzialmente interessate a operare in Italia.
In altre parole, il rischio reale è che a fronte di un simile livello di incertezza giuridica, molte imprese potrebbero essere indotte a non ritenere l’Italia il luogo più adatto per investimenti con inevitabili conseguenze sull’occupazione.
© riproduzione riservata dello Studio GF LEGAL STP